domenica 29 settembre 2013

Stanza 205





                                                                                       Edvard Munch- Morte della mamma



Sabato pomeriggio. Pochi chilometri, solo quattro, a dispetto dei trentasei di un anno fa. "Devi mettere i calzari e il camice, è in isolamento, puoi entrare solo tu". Il camice ha cambiato colore, non è più azzurro, adesso è verde acqua, verde speranza maledetta, come i calzari, ma quelli sono identici, solo molto più grandi. Stanza 205. Non busso neppure, non ci senti più, da un mese ormai. Qui le stanze non sono bianche sono gialle, i copriletti rosa, sembra quasi una stanza da barbie, che ironia, pensare a una stanza giochi, dentro una clinica convenzionata. E sei lì, una massa indistinta, sorda e adesso anche muta, con un buco sul cuore in cui entrano quattro fili di flebo, e altre due flebo attaccate alle braccia, sembri in croce, come Gesù. E non so che dire, all'inizio neppure capisci che sono entrata, allora mi avvicino e ti scuoto il braccio, tu torni nell'inferno e piangi. Le labbra sono bianche, e ai lati il sangue scorre spavaldo, come se fosse giusto, come se fosse maledettamente normale. Asciugo il sangue con il fazzoletto, e tu raccogli tutto il fiato che resta in quella corda vocale toccata dal mostro che ti è spuntato sul collo, per dire grazie e per scusarti perchè stavolta non ce la farai. E io vorrei tanto piangere, ma piangi tu per tutte e due. Poi ti dico "Oggi vado, mi metto volontaria per farmi tipizzare il midollo osseo, m'iscrivo anche all'avis, perchè voglio donare anche il mio sangue se è buono, per quello che serve", e tu sai solo chiedere "Perchè? Perchè ti devi fare questo?", ti dico solo che lo faccio perchè è giusto così, ma avrei mille altre ragioni da aggiungere. Dovrei dirti che ogni notte per due anni ho pregato che ci fosse un'anima compatibile con te, una che potesse salvarti la vita, dovrei dirti che per due anni ce l'ho avuta con me stessa e con mia madre che ha fatto quella puntura per non farmi ereditare il vostro raro gruppo sanguinio, dovrei dirti che sono stata un'egoista e volevo iscrivermi già da un anno fa solo per aggirare le preclusioni di parentela che non permettevano la verifica della compatibilità tra noi due, dovrei dirti che in due anni ho passato l'inferno insieme a te e che oggi non lo auguro neppure al mio peggiore nemico, dovrei dirti che ho capito che l'unica cosa che m'interessa è sapere che sto facendo la mia parte, perchè qualcuno non soffra come abbiamo sofferto noi. E invece non te lo dico, perchè io non parlo mai, o meglio parlo sempre di tutto tranne che di me, e così mi esce solo un è giusto così. Ti lascio lì in attesa degli altri, in lacrime, dicendoti solo che non si piange perchè se si piange si spreca solo del tempo che ci serve per arrivare prima alla fine, e sono un mostro mentre lo faccio, come sempre. Poche ore dopo nel gazebo compilo i moduli e la mano non trema più come qualche mese fa, scrivo liberamente tutti i dati, tutto quello che mi riguarda con onestà, e dimentico la paura degli aghi, la paura del sangue, la paura dell'anestesia, dimentico tutto quello che mi spaventa, perchè la cosa che mi spaventa di più non è che io posso sentire dolore, ma che lo possano sentire persone come te. E ogni giorno mi scopro ad avere le spalle più larghe di quanto pensavo, ad avere sempre meno bisogno di appoggi, a saper camminare da sola, a buttare via la chiave delle emozioni del mio cuore sempre più lontano, a seppellirla in mezzo ai fatti, in mezzo alla realtà, tra tutte le parole che non dirò mai a nessuno.






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