venerdì 23 gennaio 2015

Se chiudo gli occhi



 19 Ottobre 2014

Se chiudo gli occhi è ancora il 27 ottobre 2013. C’è quella stanza bianca, quell’odore di disinfettante che m’infetta le narici, ci siamo noi attorno al letto di quella persona che ha dato tutto agli altri senza tenere niente per se stessa: mia zia. La vedo ancora pallida, sedata, e spero che sia incapace di capire dove stanno andando a finire le sue speranze, dove sta finendo la sua battaglia durata due anni. Riaffiorano lenti e inesorabili tutti i momenti trascorsi insieme, tutti i consigli, tutti i momenti di sconforto in cui mi stringeva la mano e mi aiutava  ripartire. Quelle ore scorrono lente, ed è un’agonia infinita stare lì razionalmente consapevoli della morte che arriva ma con la speranza di un miracolo che la salvi. E’ un vai e vieni d’infermieri che attendono il decesso, ed è un gesto automatico, come se si stesse parlando di un oggetto e non di un essere umano. Poi mi mandano via, mi spediscono a casa. Ma mentre sono per strada mi richiamano. E allora la corsa disperata, le scale salite a due a due, il respiro spezzato, le lacrime che corrono più veloce di me, e ritorno in quel bianco, quel bianco che oggi non riesco a sopportare, l’abbraccio ma è tardi. Lei è andata via e questa volta non tornerà. Per la prima volta in vita mia sento un vuoto dentro che non credo riuscirò mai a colmare. Un vuoto che mi divora e mi rosicchia nel profondo. Oggi è passato quasi un anno e se chiudo gli occhi so che lei è ancora qua con me a stringermi la mano e per ringraziarla di essere stata per me madre, sorella, zia ed amica le dedico tutti i miei giorni. 


domenica 18 gennaio 2015

Parole desuete



Da quando non ci sei più, ci sono parole che ho smesso di usare.
Le usavo perchè erano desuete e ti facevano ridere.
A volte ti dicevo che avevo tante personalità, e ogni tanto una si lasciava morire per inerzia, oppure scherzando ti chiedevo del "presente" che mi avresti fatto per il compleanno.
E' come se il mio vocabolario si fosse improvvisamente ridotto all'osso, allo stretto necessario.
I primi tempi pensavo che fosse solo una cosa transitoria, adesso so con certezza che un nuovo status destinato a non lasciarmi.
Forse alla fine non è neppure solo il vocabolario ad essersi ridotto, è proprio che io ho perso la voglia di esprimermi, la voglia di chiarire con gli altri, adesso lascio stare e vado oltre. Oltre i silenzi, senza bisogno di cercare risposte, come se tutte le risposte del mondo non serviranno mai a nulla.
Penso a cose pratiche: esami, scadenze, lavoro, appuntamenti e tutte le mie giornate sono scandite da orari ben definiti, senza spazio per pensare a niente che non sia ordinarietà.
Oggi dopo mesi mi fermo, e mi rendo conto che non ho più scritto, non ho più parlato neppure con me stessa.
E ora quando sento una parola, o una cosa che mi riporta a te, mi rendo conto che il suono non è più quello di una volta, è un'eco lontana, un frantumarsi di ricordi vetro che ti tagliano ovunque mentre cerchi di raccogliere i cocci.
Stasera, tra una canzone e l'altra, un esame che si avvicina e i pochi giorni che mi restano, mi chiedo che fine farò, dove mi porterà "la strada giusta" che ho intrapreso.



E non rimane più niente
che mi fa più paura
di me



sabato 10 gennaio 2015

MALEDETTI ITALIANI


I “Maledetti italiani” siamo noi, tutti, senza eccezione: avviluppati in un'identità nazionale che è tanto più forte quanto più è fragile il nostro sentirci comunità. [...] Un brano che è allo stesso tempo un manifesto programmatico, una dichiarazione di appartenenza e un atto d'accusa: verso se stesso, il maledetto me, e verso il paese che ha nutrito e cresciuto la sua musica. Il video che accompagna Maledetti italiani è la rappresentazione plastica del rapporto di odio-amore che gli italiani hanno con il loro paese e con le figure che ne hanno costruito la grandezza o raccontato (e in qualche caso, facilitato) la caduta: un rapporto fatto di umorismo, sorpresa, ammirazione per il genio, ma anche risentimento. È un paese che cambia, quello raccontato dal video e cantato da Colapesce, in modi inaspettati e suo malgrado: un paese che non ha più il volto che aveva cinquant'anni fa, talvolta nel bene, talvolta nel male. Secoli di storia italiana sono raccontati attraverso i volti dei personaggi aggrediti con equanime aggressività dal piccolo Francesco Fallica, “maledetto italiano di nuova generazione” e protagonista del video, che non risparmia nessuno: il concetto di buono e cattivo - di “alto” e “basso” - perde valore.
Siamo tutti italiani, ognuno maledetto a modo suo. 

Il video, realizzato dal collettivo catanese Ground's Oranges con la regia di Zavvo Nicolosi, è stato girato nello studio dell'artista Jacopo Leone e si conclude non a caso con un rogo in cui, tra politici, calciatori, personaggi del cinema, della musica, della televisione, mostri sacri e fieri rappresentanti della cultura italiana nel mondo, brucia anche la foto dello stesso Colapesce. Segno di discontinuità col passato e bisogno di fare tabula rasa degli idoli, dei nemici e anche di se stesso, un po' come i Clash che nel 1977 cantavano: “No Elvis, Beatles, or The Rolling Stones”.