19 Ottobre 2014
Se chiudo gli occhi è ancora il 27 ottobre 2013. C’è quella
stanza bianca, quell’odore di disinfettante che m’infetta le narici, ci siamo
noi attorno al letto di quella persona che ha dato tutto agli altri senza
tenere niente per se stessa: mia zia. La vedo ancora pallida, sedata, e spero
che sia incapace di capire dove stanno andando a finire le sue speranze, dove
sta finendo la sua battaglia durata due anni. Riaffiorano lenti e inesorabili
tutti i momenti trascorsi insieme, tutti i consigli, tutti i momenti di
sconforto in cui mi stringeva la mano e mi aiutava ripartire. Quelle ore scorrono lente, ed è
un’agonia infinita stare lì razionalmente consapevoli della morte che arriva ma
con la speranza di un miracolo che la salvi. E’ un vai e vieni d’infermieri che
attendono il decesso, ed è un gesto automatico, come se si stesse parlando di
un oggetto e non di un essere umano. Poi mi mandano via, mi spediscono a casa.
Ma mentre sono per strada mi richiamano. E allora la corsa disperata, le scale
salite a due a due, il respiro spezzato, le lacrime che corrono più veloce di
me, e ritorno in quel bianco, quel bianco che oggi non riesco a sopportare,
l’abbraccio ma è tardi. Lei è andata via e questa volta non tornerà. Per la
prima volta in vita mia sento un vuoto dentro che non credo riuscirò mai a
colmare. Un vuoto che mi divora e mi rosicchia nel profondo. Oggi è passato
quasi un anno e se chiudo gli occhi so che lei è ancora qua con me a stringermi
la mano e per ringraziarla di essere stata per me madre, sorella, zia ed amica
le dedico tutti i miei giorni.
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